A sinistra: i martiri del popolo Ciavar Quarna nel Kurdistan iracheno. Sopra: Margaret George
(1941-1969), la Giovanna d’Arco del Kurdistan. Sotto, dall’alto verso il basso: Shivan Perwer (1955),
Seyhmus Dagtekin (1964) e Pirbal Farhad (1961). Servizio fotografico di DANILO DE MARCO
Corriere.it
Fin dal Medioevo quelle del Kurdistan furono valli di musiche e parole. Viaggiavano grazie ai «Dengbêj», più simili agli aedi greci che ai trovatori francesi. Mentre un appello scritto all’unità nazionale risale a un secolo prima della Rivoluzione francese
Secondo il celebre scrittore armeno Hovhannès Toumanian (1869-1923) «ogni curdo è un poeta». Al termine del XIX secolo, quando questo fine conoscitore di usi e costumi dei suoi vicini curdi formulava tale osservazione, la società curda era ancora ampiamente rurale e tribale. Allevatori nomadi e contadini vivevano in simbiosi con la natura, continuavano a cantare, come facevano i loro antenati fin dalla notte dei tempi, le loro gioie e le loro pene, a immortalare con il canto i momenti significativi della loro vita personale e collettiva. Le frequenti gare poetiche, le feste di matrimonio, che talvolta duravano una settimana, offrivano l’occasione a questi poeti compositori anonimi, generalmente analfabeti, di far conoscere le proprie creazioni e di improvvisarne per rispondere ai loro concorrenti. I canti più apprezzati circolavano da una vallata all’altra attraverso tutto il territorio curdo grazie agli straordinari trasmettitori di memoria collettiva che per secoli furono idengbêj, cantori professionisti più vicini agli aedi greci che ai trovatori o ai trovieri del Medioevo francese.
Provenienti dal popolo, talvolta dalle comunità cristiane o gitane, spesso al servizio di signori locali che provvedevano alla loro sussistenza, essi animavano, grazie a un ricco repertorio che andava dal canto d’amore alle epopee e alle melopee, le lunghe serate invernali e le festività tradizionali in un’epoca in cui non esistevano né televisione né cinema.
Accanto a questa poesia orale cantata nelle serate e nelle feste, c’era anche — e c’è ancora — una poesia più intima, quella di amori infelici, di ninnananne e di elegie cantate dalle donne, nella cerchia familiare, fra amiche, al lavatoio del villaggio o nei campi. In effetti, nella letteratura orale, così ricca e varia, che alcuni orientalisti definiscono ipertrofica, l’essenziale della poesia lirica è opera delle donne.
E, accanto a questa tradizione orale dove la poesia anonima, generalmente di creazione femminile, viene cantata per essere meglio memorizzata e trasmessa, c’è anche una tradizione scritta coltivata da poeti che fin dal Medioevo frequentano le corti principesche del Kurdistan. Il suo più illustre rappresentante è Melayê Djezirî (1570-1640), contemporaneo di Shakespeare, seguito, nel XVII secolo, da Ahmedê Khanî (1650-1706), autore dell’epopea nazionale curda Mem û Zîn, dove la storia degli amori contrastati dei suoi eroi è il pretesto per deplorare la divisione del Paese curdo in tanti principati e per invocare la creazione di un Kurdistan unito e indipendente. Un appello all’unità nazionale curda lanciato un secolo prima della Rivoluzione francese e quasi due secoli prima della comparsa di artisti e scrittori nazionalisti italiani del Risorgimento.
Cantore della passione amorosa e dell’amore mistico, Djezirî, la cui opera si può paragonare a quella del grande poeta persiano Hafez, che Goethe reputava «insuperabile», o a quella di Dante Alighieri, si presentava così:
Sono la rosa dell’eden di
(del principato di) Botan
sono la fiaccola delle notti del Kurdistan
Per quanto fosse un mollah, egli giustificava l’eresia del grande mistico curdo Sheikh San’ân, il quale, spinto dall’amore per una principessa armena, se ne andò in Armenia, dove accettò di diventare guardiano di maiali, supremo peccato agli occhi dei devoti musulmani, poiché l’amore è di essenza divina e trascende razza e religione. Cinque secoli più tardi, quella fiaccola continua a illuminare il cuore degli innamorati curdi che ancora oggi recitano e cantano i suoi poemi esaltando l’amore che non conosce né legge, sia pure religiosa, né frontiere.
Gli amori di Mem û Zîn, che in Kurdistan sono celebri quanto Romeo e Giulietta in Occidente, sono ancor oggi cantati e, nei momenti di disgrazia, i curdi meditano sui seguenti versi, sempre attuali, di Khanî, padre del patriottismo curdo:
Mi affido alla saggezza di Dio
nello Stato del mondo
perché i curdi sono condannati
perché sono privati dei loro diritti?
Questa corrente, che lega la poesia e più generalmente l’arte alla lotta per la libertà del Kurdistan, dal XIX secolo si afferma con forza nella vita culturale. Khanî e i suoi numerosi epigoni dei secoli successivi non possono certo essere ridotti soltanto alla loro dimensione politica, così come Verdi o Chopin non possono essere apprezzati sulla base del loro impegno patriottico, e Majakovskij, Nazim Hikmet o Neruda esclusivamente per la loro passione rivoluzionaria.
Il XX fu il secolo della iniqua spartizione del Kurdistan, da parte delle potenze coloniali, fra Turchia, Iran, Iraq e Siria: un secolo di ingiustizie e di sventure per il popolo curdo, minacciato nella sua esistenza e nella sua identità da questi nuovi Stati che, nel tentativo di costituire Statinazione culturalmente omogenei, vollero sradicare la lingua, il patrimonio culturale e storico di un popolo che da sempre viveva sulle terre dell’Alta Mesopotamia.
Oltre che di oppressione, il XX secolo fu per i curdi anche un’epoca di rivolte e di resistenza. «Resistere è vivere»: frase che per la maggioranza di loro è diventata una parola d’ordine. Resistenza armata durante la trentina di sommosse contro gli eserciti di occupazione; resistenza spirituale per salvaguardare la lingua e la cultura curde e trasmetterle alle nuove generazioni. Dai cantori che glorificano nei loro canti epici le gesta e gli eroi della resistenza, ai poeti e agli scrittori messi al bando che inculcano e coltivano lo spirito di resistenza, una grandissima parte della letteratura curda orale e scritta è, nel XX secolo, una letteratura di lotta.
I suoi più illustri rappresentanti furono Cergerxwîn (1903-1984) e Hejar Mukriyani (1920- 1990), i cui poemi patriottici, cantati in particolare da Shivan Perwer, sono popolari in tutto il Kurdistan. Il loro impatto era talmente temuto dai regimi oppressori del popolo curdo che negli anni 80 il semplice fatto di possedere delle cassette di Shivan poteva costare parecchi anni di carcere in Turchia e in Iran, la pena di morte nell’Iraq di Saddam Hussein. Addirittura, alcuni poeti, per esempio Shêrko Bêkes, si arruolarono nella resistenza armata come l’idolo di Shivan, Lord Byron, che ai suoi tempi combatté per l’emancipazione della Grecia dal giogo turco.
La nuova generazione di poeti curdi, pur rimanendo attaccata alla terra degli antenati e alla sorte del proprio popolo, si esprime anche sui temi più svariati. Oltre a Rimbaud, René Char e a Keats, ha altri riferimenti, altre fonti di ispirazione. Per le vicissitudini della Storia, è stata spesso costretta all’esilio, fonte di tormenti e di sradicamento ma anche di nuove, feconde avventure culturali e artistiche. Alcuni autori di questa nuova generazione, tradotti in francese o in inglese, cominciano ad essere conosciuti anche in Europa. Fra questi, Nazand Begikhani (1964), una militante del femminismo nel Kurdistan iracheno, ha ricevuto l’Emma Humphreys Memorial Prize (2000) e il Premio della poesia femminile Simone Landrey (2012). Ferhad Pirbal (1961), professore di lettere all’Università Saladino a Erbil, scrittore, poeta e pittore, è anche un personaggio significativo della disobbedienza civile, impegnato a denunciare le tare della società e del mondo politico curdi. Seyhmus Dagtekin (1964) che, dopo i primi testi in curdo, scrive ormai in francese, «la lingua della sua patria di adozione», ha già ricevuto numerosi riconoscimenti: il Premio internazionale della poesia francofona Yvan-Goll, il Premio Théophile Gautier e il Premio Stéphane Mallarmé. Altri talenti meriterebbero d’essere tradotti nelle lingue europee. A questo si dedica con perseveranza il poeta curdo-spagnolo Ahmedê Mela.
Le donne continuano a occupare uno spazio preminente nella creazione poetica, letteraria e artistica contemporanea. Come ha dimostrato la battaglia di Kobane contro i jihadisti dello Stato islamico, esse occupano un ruolo di primo piano nella resistenza curda, compresa la resistenza armata. Si tratta, anche qui, di una antica tradizione curda che oltre un millennio di conservatorismo islamico misogino non è riuscito a far vacillare e che gli occidentali riscoprono grazie alle immagini televisive della resistenza curda di Kobane, guidata da una donna, Narîn Afrînî, e costituita per quasi la metà da donne. (traduzione di Daniela Maggioni)
Kendal Nezan